Il nome deriva, evidentemente, dal termine spaghi, con riferimento alla forma della pasta, verosimilmente il primo formato a essere prodotto con una trafila, traforata con semplici fori cilindrici. I formati più sottili sono anche denominati capelli d’angelo, capelvenere, , fidelini, sopracapellini, spaghettini; filatelli e spaghettoni per i formati più grossi. Da notare che non esiste una pasta con il nome di spaghi, cioè con il termine al grado neutro.
E’ il più conosciuto formato di pasta e quello che più ha rappresentato la cultura italiana nel mondo. Pizza e spaghetti definiscono ancora oggi l’appartenenza culturale del popolo italiano per gli stranieri al loro primo approccio con le nostre tradizioni gastronomiche. Si parla del formato lungo noto come “vermicelli” e sinonimo di spaghetti fin dal XII secolo, e già in quella lontana epoca la pasta viaggiava e si diffondeva attraverso il mare Mediterraneo nei porti italiani e nelle città che ne avrebbero favorito la diffusione fin nelle regioni più interne. Dalla Sicilia alla Sardegna, nei porti delle città marinare come Genova, Amalfi, Pisa… Ma sarà nel golfo di Napoli che nascerà la più importante corporazione esclusivamente dedicata alla fabbricazione della pasta: l’Arte dei Vermicellai, originata dalla corporazione dei fornai, assumerà autonomia e si doterà di uno statuto proprio già nel 1579.
La tradizione vede gli spaghetti come formato principe per la preparazione a base di “pesce fuggito”: talvolta, in mancanza di meglio, a sostituire il pesce vero e proprio si utilizzavano ingredienti particolari come alghe o sassi porosi dei fondali marini che, bolliti con vari aromi, ricreavano un brodo saporito con il gusto del pesce nel quale cuocere la pasta. A queste ricette particolari si ispira la celebre “acqua pazza” laziale.
«Ad Amalfi il mare era il nostro cibo. Da ragazzi prima e da giovanotti poi ci siamo nutriti di mare. Alla spiaggia intingevamo il tarallo nell’acqua salsa. Bagnato diventava morbido e saporito. Aspettavamo l’onda e allungavamo la mano. […] Più tardi, al buio, per non farsi vedere, arrivavano le donne a riempire le piccole anfore di terracotta. Entravano in acqua a piedi scalzi, si attorcigliavano la gonna sopra le ginocchia e immergevano la brocca che si riempiva con un rapido gorgoglìo. Ogni tanto arrivava una contravvenzione: era proibito per legge attingere acqua dal mare. Ma, alla fine, il maresciallo della Finanza cedeva alle preghiere e ai segni di rispetto, cancellando la multa. L’importante era che in casa non mancasse mai l’acqua di mare. Cuocere gli spaghetti mescolando una tazza di acqua salata all’acqua dolce significava dare loro un vigore tale che, conditi con aglio e olio, pomodoro, prezzemolo e peperoncino, non solo mantenevano una cottura “al dente”, al punto che ogni spaghetto faceva rumore cadendo nel piatto, ma acquistavano un sapore di pasta condita col sugo di pesce. Difatti il vero nome di questa minestra è: spaghetti al pesce “fujuto”, cioè al pesce fuggito. Una perla della cucina povera»
Da: Afeltra Gaetano, Spaghetti all’acqua di mare
Salerno